Mozart e Brahms: quintetti - Il sabato del Mascagni

Sabato 24 giugno alle ore 16, presso l'auditorium "C. Chiti" del Conservatorio Mascagni, si terrà il concerto conclusivo della rassegna Il sabato del Mascagni.
 
 

Programma

Wolfgang Amadeus Mozart
Quintetto per clarinetto e archi in la maggiore, K. 581

 
Johannes Brahms
Quintetto per pianoforte e archi in fa minore, op. 34

 
 

I musicisti

Il quintetto di Mozart verrà eseguito da:
Michele La Greca: clarinetto
Marta Boschis, Ilaria Da Dio: violini
Shirin Massai: viola
Giovanni Agostini: violoncello

 
Il quintetto di Brahms verrà suonato invece da:
Edoardo Mancini: pianoforte
Alessio Mannelli, Amanda Longarini: violini
Matteo Tripodi: viola
Leonardo Giovannini: violoncello

 
 

Note di sala

Rispetto ai vari Quartetti e Quintetti per strumento a fiato, non v'è dubbio che l'ultimo lavoro lasciato da Mozart in questo campo, il Quintetto per clarinetto in la maggiore K. 581, non solo costituisca un autentico vertice, ma anche una pietra miliare del repertorio clarinettistico, e, più in generale, uno degli autentici capolavori di tutta la letteratura cameristica del compositore.

I primi contatti con il clarinetto il piccolo Mozart li ebbe all'età di otto anni, nel corso della sua lunga permanenza londinese; a quel tempo il clarinetto era uno strumento di costruzione recente, che non si era ancora conquistato un posto stabile in orchestra. Di fatto Mozart dovette attendere oltre un decennio perché l'orchestra di Mannheim gli mostrasse il perfetto impiego sinfonico dello strumento rispetto agli altri fiati.

Tuttavia solo negli ultimi due anni di vita il compositore potè scrivere dei brani che vedessero il clarinetto in un ruolo solistico. L'occasione gli fu fornita dalla conoscenza dello strumentista Anton Stadler, un virtuoso di straordinaria abilità che del clarinetto svelò a Mozart le inesplorate potenzialità espressive; senza dimenticare che lo strumentista suonava su uno strumento detto "clarinetto di bassetto" che si differenziava dal modello moderno per una maggiore estensione nel registro grave. Per le capacità tecniche e interpretative di Stadler (oltretutto suo fratello massone, nonché compagno di affari, sembra, non sempre limpidissimi) Mozart confezionò su misura il Quintetto K. 581, il cosiddetto "Trio dei birilli" e il crepuscolare Concerto K. 622, oltre ai mirabili interventi concertanti di due arie della Clemenza di Tito ("Parto ma tu ben mio" cantata da Sesto, e "Non più di fiori", da Vitellia; quest'ultima in verità concepita per corno di bassetto, che del clarinetto è stretto parente).

Fra queste opere lo "Stadler-Quintett", come lo stesso Mozart ebbe a definirlo, è forse quella che meglio mette in luce il timbro dolcemente sensuale dello strumento, la sua straordinaria estensione, le doti cantabili e quelle virtuosistiche; e questo grazie anche al felicissimo sposalizio con la classica formazione del quartetto d'archi, che accoglie il clarinetto come un "primus inter pares", esaltandone il ruolo solistico senza per questo mortificarsi in una funzione di accompagnamento.

Certo, sarebbe inopportuno rimproverare al Quintetto K. 581 la mancanza di quella scrittura complessa e di quella elaborazione tematica che contraddistinguono i coetanei Quintetti per archi, e che erano in partenza precluse dalla presenza dello strumento a fiato. E tuttavia è difficile pensare a una scrittura più raffinata di quella del Quintetto per clarinetto, perché la sofisticatezza delle figurazioni di accompagnamento e il gioco di scambio delle funzioni fra i vari strumenti mostra veramente una maestria suprema. In sostanza alla piena accessibilità della funzione di accompagnamento si coniuga nel Quintetto K. 581 una raffinatezza di impostazione che in qualche modo sembra rinnegare quella accessibilità; e proprio per questa ambiguità la partitura appartiene al novero dei capolavori.

L'Allegro iniziale, in forma sonata, si basa su temi ampi e cantabili, di immediata piacevolezza, non disgiunta per la seconda idea da una certa malinconia, evidenziata dalla ripresa in minore del clarinetto; lo sviluppo poi evita i contrasti dialettici e si fonda piuttosto sulla figurazione arpeggiata che introduce il clarinetto, elaborata in suadenti giri armonici; è questo il movimento che offre ai cinque strumenti le maggiori possibilità di intreccio e di scambio di ruoli - ad esempio se nella esposizione si susseguono violino e clarinetto, nella ripresa i ruoli vengono invertiti - sempre condizionate dalla ricerca di soluzioni sonore dolcemente eufoniche.

Il secondo tempo, un tenero Larghetto in una regolarissima forma di Lied, vede il clarinetto impegnato nell'esibizione delle proprie capacità melodiche e del rapido passaggio dai gravi agli acuti; nella sezione centrale esso instaura un dialogo con il primo violino, sul morbido sfondo creato dagli altri archi. La presenza inconsueta di due Trii avvicina lo spirito del Minuetto a quello dei Divertimenti salisburghesi; alla garbata melodia della danza si contrappongono prima una sezione in minore per soli archi, e poi un motivo dal carattere di Ländler popolaresco. E popolaresco è anche il Tema con variazioni (finale al posto del più usuale Rondò) il cui carattere disimpegnato è una precisa scelta dell'autore, che aveva già abbozzato un movimento più complesso; le variazioni, improntate alla massima godibilità d'ascolto, si susseguono secondo una studiata logica di contrasti alternati, con una variegata scrittura strumentale che riassume le caratteristiche più salienti dell'intera composizione.

Arrigo Quattrocchi

 

 

Il Quintetto in fa minore op. 34 per pianoforte e archi è una delle opere più celebri di Johannes Brahms, oltre che una delle poche nelle quali il getto dell'ispirazione, torrenziale, sembra avere la meglio sulle sue proverbiali cautele nel procedimento di scrittura. La genesi dell'opera, in realtà, è molto accidentata e percorre per intero un anno di profonda crisi emotiva, il 1864, nel corso del quale egli sembra aver trovato ancora una volta rifugio nel lavoro, in quella cura artigianale e quasi maniacale della forma che giustamente è stata definita da Massimo Mila come un "argine" esistenziale opposto agli attentati della disperazione.

La prima versione era destinata alla formazione del quartetto d'archi, ma qualcosa nell'abbondanza dei materiali e nel loro respiro vasto, orchestrale, fece inclinare Brahms per un'altra soluzione, quella della Sonata per due pianoforti. Una volta preparato un abbozzo di questa versione, Brahms ne inviò copia a Clara Schumann, che rimase entusiasta delle idee musicali ma giudicò inadeguata la scelta dei due pianoforti. "È un'opera così piena di idee - scrisse a Brahms - da richiedere un'intera orchestra. Al pianoforte la maggior parte di queste idee va perduta. Può percepirle uno specialista, ma non certo il pubblico". Fu allora Hermann Levi, direttore d'orchestra che aveva suonato in coppia con Clara la versione per due pianoforti e che, al contrario di lei, ignorava l'originaria derivazione dal quartetto d'archi, a proporre al compositore l'ipotesi del quintetto con pianoforte. Brahms accolse il suggerimento, nella convinzione che alcuni passaggi più decisamente "orchestrali" richiedessero l'intervento del pianoforte, e approntò in tempi piuttosto rapidi la versione definitiva dell'op. 34, la compattezza della quale non rivela nulla dei dubbi, delle discontinuità, delle manomissioni con cui la materia sonora venne trattata in concreto. "Da una composizione monotona per due pianoforti avete tratto un'opera di grande bellezza", gli scrisse Levi, aggiungendo che "non si ascoltava nulla di simile dal 1828", ovvero dall'anno della morte di Schubert.

Il paragone con Schubert è pertinente per tutto quel che riguarda l'espansione delle idee melodiche, la ricchezza e il carattere emotivo, quasi patetico del discorso armonico, come pure per la tendenza a trattare l'insieme cameristico come se si trattasse di un cartone di studio per la grande orchestra. Dal punto di vista dell'architettura, invece, lo sforzo di Brahms sembra essere stato quello di eguagliare l'equilibrio, o per meglio dire lo squilibrato bilanciamento di certe composizioni di Beethoven. I due movimenti estremi sono di gran lunga più vasti, imponenti e densi dei due movimenti intermedi, ma proprio la loro simmetria, il loro contrapporsi come pesi di eguale forza collocati ai due poli della composizione, garantisce la stabilità dell'edificio. L'Andante, basato su un'idea melodica principale e altre idee secondarie che le somigliano come per una comune aria di famiglia, è un esempio di "orchestrazione cameristica" leggera ed espressiva, mentre lo Scherzo Allegro, il terzo movimento, rinvia a quel clima nordico, quasi da ballata, che è stato fin dal principio uno degli elementi dominanti della poetica brahmsiama. Ma sono appunto le idee della pagina d'apertura, fin dal bellissimo tema esposto all'unisono da violino, violoncello e pianoforte per essere ampiamente sviluppato e intrecciato ad altri motivi, come pure il percorso di intensità crescente del finale, a porre il marchio della genialità su una delle pagine più affascinanti di tutto l'Ottocento musicale.

Stefano Catucci

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